martedì 18 maggio 2010

A proposito di Harry


L'amico immaginario di Guglielmo Nigro, Harry Naybors, ha puntato il suo occhio critico sui premi Micheluzzi. I capi d'accusa, in buona sostanza, si riassumono in due questioni essenziali: l'assenza di un criterio estetico comune a nomination e premi. E l'utilizzo di una sorta di (inconsapevole?) Cencelli nell'attribuzione delle prebende, politicamente distribuite fra i vari editori in modo da non scontentare i pezzi grossi.
Argomentazioni capziose, si dirà. E in effetti, in questo senso, l'uomo non si tira certo indietro. La sua analisi è articolata, pregiudizialmente e ostinatamente negativa, puntualissima nel sottolineare le mancanze dell'evento, ma curiosamente disinvolta nel ridimensionare i (rari) pregi. Difetti tipici di ogni discorso a tesi, quindi pienamente accettabili.
Il problema vero sta però nel nocciolo della vexata quaestio, cioè nell'idea di saldare nomination e premi su "una o più idee di fumetto, eventualmente coerente con le idee di fumetto che sorreggono la manifestazione".
Se ho ben capito, insomma, è meglio decidere prima qual è la propria idea di fumetto da concorso. E poi selezionare le opere da mandare in nomination in base a quest'idea.
Ecco, personalmente credo che il vero limite dell'analisi di Harry Naybors stia proprio in questo. Già l'idea di uno o più criteri univoci per definire un fumetto da concorso, di suo, è un osso duro. A complicare il quadro non c'è solo un panorama di proposte che vanno dal fumetto commerciale, al fumetto autoriale, al fumetto art-house, spesso confondendo ambiti e generi. No: ci si mette anche il gusto personale di chi partecipa alle selezioni. Un gusto che a volte incide sulle scelte dei singoli, lasciando al palo alcune produzioni per pura idiosincrasia.
Ma ammettiamo di uscirne vivi, e di riuscire a sintetizzare la pietra filosofale, la formula magica del fumetto da concorso. Chi ci dice che in questo caso autori ed editori non farebbero a gara per produrre opere perfettamente tagliate su quella filosofia? Il rischio è che capiti quello che capita con un certo modo di fare cinema, con i film "da Oscar", "da Sundance", "da Palma d'Oro" e via discorrendo, opere formalmente perfette ma costruite ad hoc per quella particolare competizione, manierate, a corto di slanci e di creatività. E se la competizione prevede un premio in denaro, peggio mi sento.
Meglio questo, o meglio continuare a puntare su un generico criterio di qualità?
Di mio, direi che la seconda ipotesi è sempre la migliore.
Dice: ma così tocca continuare a fidarsi della buona fede dei selezionatori. Che magari ne sanno a pacchi. O magari no. E magari non colgono le specificità e i valori intrinseci e immanenti e i sottotesti e le varie ed eventuali di tutti i bei giornaletti che escono in edicola e in fumetteria.
È vero, la perfezione non è di questo mondo, e qualche rischio c'è. Ma per lo meno, in caso di colossali topiche, il pregiatissimo pubblico sa chi spernacchiare. È un rischio che chi scrive sotto pseudonimo può dare l'impressione di non voler correre, caro Harry. E che per chi sta dall'altra parte costituisce la miglior garanzia di un contributo magari opinabile, ma comunque adulto, maturo e consapevole.
Dopodiché: la discussione è indubbiamente interessante, e resta aperta.

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