mercoledì 13 gennaio 2016

Dalle stelle alle Stallone



"Creed" di Ryan Googler racconta come meglio non si potrebbe la Hollywood di oggi: una macchina tirata a lucido, fisicamente imponente, perfettamente oliata e sempre pronta a menar le mani, ma allo stesso tempo debole di cuore e capace di vincere solo aggrappandosi al passato. Così, come con le Guerre Stellari di JJ Abrams, siamo nel territorio del remake/reboot fatto per chi si fosse perso le puntate precedenti per motivi anagrafici, con la immancabile, faticata scalata al cielo del giovane pugilator cortese costretto a fare i conti con un nome ingombrante, gli avversari scorretti, le donne e tutto il resto. Un esercizio di stile, con il giusto bilanciamento fra cazzotti, scene madri e vita proletaria. Ma alla settima portata della saga interpretata da uno Stallone ormai ridotto a comparsa di lusso, si sperava in qualcosa di più: non il nichilismo di Aronofsky o il crudo realismo di un David O. Russel, magari, ma una scintilla di vita purchessia, che so la deriva gaia con il secondo che si strugge a bordo ring o il picchiatore extraterrestre molto extra e poco terrestre di cui per breve tempo si favoleggiò dalle parti di Rocky IV. E invece nada, niente, nix, dritti come fusi dentro una storia che è sempre quella, ad aspettare un finale già ampiamente annunciato, a sussultare sulle poltrone malgrado tutto per l'immancabile vittoria morale, a commuoversi per un senso di inadeguatezza che somiglia molto a quella di una industria culturale dal braccino irrimediabilmente corto. A stupirsi, perfino, perché tutto, dalle performance degli attori al montaggio alla regia è così perfetto, così levigato, così consolante. "Creed", insomma, è un po' come andare a farsi prendere a cazzotti dalla nonna. Il piacere delle mazzate, senza i lividi.

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